San Martino - riflessioni di Don Carlo tratte dal "Mantello della Giustizia" (Agosto 2017) Maggiori informazioni https://santamariaquinto-it.webnode.it/news/san-martino-riflessioni-di-don-carlo-tratte-dal-mantello-della-giustizia/

05.03.2018 12:57

San Martino. Novellando di cose serie (Vedi anche qui)

San Martino (+ 397), quello dell’11 novembre con ancora d’un pocolino di bella stagione, e carducciano fin dai banchi delle elementari. Sì, è il giovane del mantello al povero, poi monaco, infine vescovo di Tours. Sulpicio Severo, filiale discepolo, nella sua Vita di Martino, racconta quanto ha udito lui stesso dal maestro a proposito di una visione narrata dalle labbra dello stesso veggente.

Nella prosa di Sulpicio si sente Martino parlare dell’apparizione, luminosa e meravigliosa: al vescovo si manifesta un Cristo con le insegne imperiali che lo invita a riconoscerlo e credergli. Pareva così potente, così divino! Proprio a lui, Martino, il Cristo re avrebbe fatto un trattamento di favore: il Signore era in procinto di tornare sulla terra, ed ora a lui si degnava di far assaggiare - come dire? - un antipasto della gloria superna prossima a manifestarsi. E l’insistenza dell’augusta persona pare insinuare che un rifiuto del pastore d’anime avrebbe avuto conseguenze inimmaginabili d’ira divina.

Martino però in tutto quell’abbagliante splendore, paradossalmente, non ci vede chiaro. Lì per lì sospende il giudizio, ma, nel silenzio che segue alle insistenti proposte del sussiegoso personaggio, continua a pensare: salutari perplessità che evitano convincimenti affrettati; dubbi sacrosanti su apparenze fantasmagoriche per cercare invece, nuda e semplice, la volontà di Dio.

E Dio a suo modo si fa sentire. Una illuminazione dello Spirito Santo fa vedere a Martino un altro aspetto della realtà. Ma a questo punto ascoltiamo le sue parole. «“Gesù, il Signore, non ha predetto che sarebbe venuto in vesti di porpora e con splendido diadema; da parte mia, Cristo non lo crederò venuto se non in quello stile e in quella forma in cui è andato incontro alla passione, se non con i segni della sua croce”. A quelle parole» l’ambigua figura «svanì come fumo», lasciandosi dietro un gran puzzo. Era il diavolo (Vita di Martino 24,7-8). Perché Gesù non adesca, non ammalia, non imbambola. Salva. E per la sua salvezza basta la croce e la risurrezione.[1]

 

2. Solitudine della coscienza

Martino non era vescovo da sgonnellare a corte. Aveva interrotto bruscamente e, a quanto pare, a suo rischio e pericolo una promettente carriera militare per farsi discepolo di Ilario di Poitiers, quel vescovo che aveva detto di temere gl’imperatori che ricoprivano d’oro la Chiesa più dei persecutori Nerone o Diocleziano: guardarsi insomma da coloro che stuzzicano la pancia più che da quanti bastonano il groppone, curiose parole del maestro Ilario.

            L’imperatore Massimo, da poco acclamato dalle truppe in Britannia e poi passato in Gallia per acquartierarsi in Treviri, mentre Graziano, il precedente sovrano, veniva candidamente fatto fuori, volle Martino a un banchetto a motivo della sua notorietà. Il vescovo obiettava al novello augusto i modi con cui era salito al potere. Quest’ultimo ribatteva che il suo successo non era senza una permissione divina e riuscì a strappargli l’invito. Anche la imperatrice, assai pia, aveva insistito perché il vescovo, a mensa, si lasciasse servire da lei stessa. Non di meno nella solenne mensa Martino non si peritò a passare una coppa onorifica a un suo prete segretario prima che all’imperatore. Voleva accettarne il potere come un puro dato di fatto? Di fatto il sospettato augusto aveva tutto l’interesse a far intendere che quella presenza episcopale era … una spennellata d’acqua santa su recenti trascorsi. Martino non intendeva stare a quel gioco.

Ritornò da Massimo per salvare la vita all’eretico Priscilliano, vescovo di Avila, e ai suoi seguaci: era giusta, secondo lui, la scomunica e la rimozione dall’ufficio, ma contestava che si intromettesse lo stato a infliggere la pena, e la pena di morte, come invece insistevano all’esecuzione molti altri colleghi spagnoli, capeggiati da un tale Itacio. L’imperatore pressato dagli interventisti cedette, tanto più che era anche il modo per ingraziarsi una discreta fetta di episcopato. Priscilliano fu giustiziato. Su Martino si spargeva la voce malevola che fosse in combutta con gli eretici. E si capisce da chi.

Martino tornò a corte per mettere i suoi buoni uffici a ché Massimo non facesse fuori due ufficiali dello staff del precedente imperatore Graziano e non attivasse un’epurazione cruenta di priscillianisti, caldeggiata seppur indirettamente dal suddetto Itacio e compagni. Riuscì a convincere a mitezza il sovrano ma ad una condizione: che Martino si mettesse in comunione con Itacio e il suo partito. Di fatto si limitò ad assistere all’ordinazione d’un vescovo della cerchia di Itacio, non tra i peggiori. Il tutto però gli doveva essere sullo stomaco. Sulla via del ritorno ebbe bisogno di appartarsi ad esaminare la sua coscienza dilaniata tra i pro e i contra, tra motivi di rimorso e spiragli d’aver agito bene. Gli sarebbe apparso un angelo: gli avrebbe suggerito di riprendere cammino e le forze spirituali per non mettere a rischio la sua salvezza eterna. Fatto sta che da allora in poi Martino visse più che mai da penitente, in una specie di morte civile.

Il ragazzo Martino con un tratto di spada aveva diviso il mantello, certo delle ragioni del cuore davanti al mendicante infreddolito. Ora, il vecchio vescovo a contatto con gl’intrighi dei potenti, resta con un freddo nel cuore più lancinante del gelo che aveva percepito sulla sua pelle nella lontana notte di guardia ad Amiens.[2]

 

3. Vescovo che insegna a perdonare

Dall’antichità cristiana a noi Martino continua a trasmette una paternità che perdona, in una disarmata prontezza a dare e a darsi senza condizioni, anche senza ritegno, come talora si pensava e si brontolava. Tant’è che ci si poteva permettere persino di trattarlo male! Tanto, lui amava e umanamente comprendeva: lui che poco più che ragazzo, secondo la sua Vita scritta da Sulpicio Severo, aveva detto il suo deciso no all’imperatore Giuliano piuttosto che versar sangue in battaglia con effetti pacifici, almeno per quella volta, nei minacciosi Franchi; lui che, vescovo, si era opposto, pressoché solo, alla decisione d’un altro cesare, Massimo, di condannare a morte Priscilliano per eresia. Ormai vecchio, già malato, s’era messo in cammino alla volta di una lontana parrocchia, dove i chierici erano in discordia tra di loro. Ci voleva il vescovo a rimetter la pace. E Martino ci rimise la pelle per una missione che ne suggella la vita.

Certo, sono parole e notizie d’un entusiasta ammiratore, Sulpicio Severo. Si dovrà fare un po’ si tara? Comunque il Martino, che il contemporaneo biografo ci tratteggia, merita la simpatia che la sensibilità popolare gli ha sempre riservato. Basta scorrere il finale della Vita che Sulpicio gli dedica, specialmente la sua Lettera in cui ragguaglia sulla morte e da cui voglio piluccare qualcosa di bello e di buono: «Che uomo indescrivibile! Non si lasciò vincere dalla fatica e non doveva essere sopraffatto dalla morte: non ebbe paura della morte e non rifiutò la vita. Febbricitante per diversi giorni, non desisteva dall’opera di Dio», espressione che Sulpicio spiega: «passando le notti in preghiera e nella veglia, costringeva le membra spossate a servire allo spirito». «Con occhi e mani sempre rivolti al cielo, non sottraeva il suo spirito alla preghiera. I preti lì presenti gli suggerivano di cambiar posizione. Rispose: “Lasciate, fratelli, lasciate che io guardi il cielo più che la terra, perché a Dio si volga lo spirito, sulla via che ormai è la sua”». E dopo aver scacciato per l’ultima volta il diavolo, da lui chiamato «bestia sanguinaria, rese lo spirito». E, del resto, il demonio ultimamente l’aveva sconfitto nel cercare con tutte le forze di portare pace.

Al suo funerale «chi piangeva era da comprendere e di chi gioiva era da condividere la gioia: ognuno per se stesso trovava motivi di lutto, ma per la persona di lui», Martino, «ciascuno trovava motivi si gaudio». E ancora: «Martino, povero e piccolo, entra ricco nel cielo. Di lassù - lo spero - protegge e guarda me in quel che scrivo, e protegge e guarda te in quel che leggi». Così il filiale discepolo Sulpicio (Lettera 3,14-21), trasfondendo anche in noi un po’ della forte mitezza del padre Martino.[3]


[1] Cf. C. Nardi, «La tentazione di Martino. Voci antiche», in Parrocchia di Santa Maria a Quinto in Sesto Fiorentino. Lettera settimanale ai parrocchiani 2 (19 novembre 2006), 33, p. 3; Id., «Martino perplesso», in Il mantello della giustizia in rete (luglio 2017)

 

[2] C. Nardi, Martino dubbioso. Voci antiche, in «Parrocchia di Santa Maria a Quinto in Sesto Fiorentino. Lettera settimanale ai parrocchiani» 3 (21 novembre 2007) n° 32, p. 2; Id., «Ancora con san Martino. Nella solitudine della sua coscienza», in Il mantello della giustizia in rete (1°agosto 2017)

 

[3] Cf. C. Nardi, Il padre san Martino. Un vescovo che insegna a perdonare. Voci antiche, in «Parrocchia di Santa Maria a Quinto in Sesto Fiorentino. Lettera settimanale ai parrocchiani» 3 (18 marzo 2007) n° 11, p. 3; Id., «Il padre san Martino. Un vescovo che insegna a perdonare», in Il mantello della giustizia in rete (settembre 2017). Per saperne un po’ di più i miei La clamide spartita. Ancora Martino e il povero, in «Rivista di ascetica e mistica» 27 (2002), pp. 267-284; Id., Per Amiens a Sesto. Il cammino di Martino dalla Pannonia a Leccio, in «Milleottocentosessantanove. Bollettino a cura della Società per la biblioteca circolante di Sesto Fiorentino» 30 (settembre 2003), pp. 6-9; Id., Il San Martino di Roberto Ceccherini a Sesto Fiorentino, in «Giornale di bordo di storia, letteratura ed arte» terza serie 18 (agosto 2008), pp. 64-66. Cf. Id., Ilario di Poitiers. Profilo di uomo intelligente, in «Rivista di ascetica e mistica» 33 (2008), pp. 29-40.