Alcune riflessioni per il periodo Natalizio

10.12.2020 13:34

Isaia fra i pagani. Il perché di Virgilio «profeta»

di Carlo Nardi

Mondo mediterraneo greco-romano, primo secolo a.C.: pienezza storica dei tempi, come dice san Paolo, riferendosi all’incarnazione del Figlio di Dio. Doveva essere un’epoca di una diffusa attesa di un evento imminente, critico ed anche salvifico. Il pensiero filosofico e morale del tempo si era orientato alla ricerca della beatitudine con vie ispirate a varie concezioni di salvezza. In mezzo a guerre civili si anelava a un ritorno ad una specie di paradiso perduto, la leggendaria età dell’oro.

Virgilio, poeta latino (70-19 a.C.), nel quarto carme della sua prima opera certa, Le bucoliche o Ecloghe, del 40 a.C., offre la più alta espressione poetica di quell’attesa in cui convergevano molteplici filoni spirituali.

Annunciava il prossimo avvento di un’era di pace cosmica, avviata e attivata dalla nuova nascita di un bimbo divino. Il piccolo è con ogni probabilità il figlio di un caro amico di Virgilio, Asinio Pollione, il quale però non compicciò granché nella vita. Eppure alcuni particolari del carme richiamano motivi biblici, che ricordano tratti del profeta Isaia: l’espiazione d’un antico peccato, l’apparizione di una vergine e la gestazione di un fanciullo destinato a grandi cose, come l’omaggio di una natura mansueta e spontaneamente feconda: leone e serpente non incutono paura al fanciullo divino in serena compagnia col mondo sia celeste sia terrestre in via di progressiva riconciliazione.1309961503

I cristiani vi trovarono consonanze con le profezie, e si può ben capire Chi intravedessero nel bambino e quale nuovo popolo di origine celeste. Eppure con diverse sensibilità fra gli stessi cristiani. Lattanzio pareva attendere ancora la piena realizzazione di quella pace cosmica, mentre Eusebio di Cesarea sembra suggerire all’imperatore Costantino che era già realizzata nel suo impero. Girolamo, da storico rigoroso, raccomandava di non cadere nel ridicolo facendo di Virgilio un cristiano (Lettera 53,7). Tuttavia una lettura di quella poesia dai toni messianici impressionava. Si comprende che Dante abbia immaginato che un altro poeta latino pagano, Stazio, alla fine del primo secolo d.C., si sia avvicinato al nascente cristianesimo a séguito di quella lettura del maestro Virgilio, a cui Stazio dice con gratitudine: «Per te poeta fui, per te cristiano» (Purgatorio XXII,73).

Remoti effetti di Isaia nella Roma pagana di allora? Chi sa? Comunque, una preparazione al vangelo.

Tratto da “Il Mantello della Giustizia” – luglio 2019

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Sempre Natale. Con o senza poesia.

di Carlo Nardi

Che dire in questo Natale, se non l’unica ed eterna Parola di Dio fatta carne? Subissata ora da fantasmagorici ed evanescenti lustrini ora da disperate paure, l’onnipotente Parola del Padre, fattasi fragile bambino, sembra continuare il suo nascondimento, anzi l’annullamento (kénōsis) di Betlemme, di Nazareth, del Calvario. Ed è ancora quella Parola fatta carne nella sommessa “discrezione” della sua Pasqua. Il frastuono esteriore e interiore, specialmente il fluire caotico e inarrestabile dei pensieri con fosforescenti bagliori o tetre caligini, fanno rilevare sempre di più la solitudine del Verbo di Dio, fatto uomo. Come mai? La nostra ragione va in cerca di evidenze luminose, la fede invece indirizza noi, come allora i pastori, a un segno di per sé quanto mai equivoco: un bambino, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Un fatto, certo, un po’ strano, ma che in sé non ha nulla di straordinario, di miracoloso, di divino.

Ci piace andare alla ricerca di un qualcosa che ci torni, che quadri con l’idea di Dio che ci siamo fatti e ci si fa: una immaginazione circonfusa di potere ed efficienza. Invece, nell’incarnazione del Figlio di Dio la brutale concretezza di quello spazio e di quel tempo ci sconcerta: qui ed ora c’è Dio uomo, non meno uomo perché Dio né meno Dio perché uomo.

È quanto risuona nelle parole di un antico scrittore cristiano, africano, di lingua latina tra il primo e il secondo secolo, Tertulliano nel suo libro La carne di Cristo:

«Cristo ha amato davvero quell’essere umano coagulato nell’utero, venuto al mondo attraverso le vergogne, fatto crescere mentre è oggetto di riso. Per quello è disceso quaggiù, per quello ha annunciato il vangelo, per quello con ogni umiltà si è abbassato fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2). Ha amato chi ha riscattato a caro prezzo. Con l’uomo ha amato anche il suo nascere, anzi anche la sua carne» (La carne di Cristo 4,3). E dall’incarnazione Tertulliano passa alla croce: «Ci sono certamente anche altre cose egualmente folli, quelle attinenti alle offese e le sofferenze che Dio ha subito. O che vorranno chiamare saggezza un Dio messo in croce? Che cosa infatti è più indegno di Dio, di che cosa ci si deve vergognare di più? di nascere o di morire? Di portarsi addosso una carne o una croce? (…) Di essere deposti in una mangiatoia o in una tomba?» (La carne di Cristo 5,1). Eppure «è stato crocifisso il Figlio di Dio: non è una vergogna, proprio perché c’è da vergognarsi. Ed è morto il Figlio di Dio: è cosa credibile proprio perché impresentabile. E, una volta sepolto, è risorto: è cosa certa perché impossibile!» (La carne di Cristo 5,4).

L’ascolto di Tertulliano è urtante. Il lettore è indotto a pensare: Ma che ci viene a dire? Eppure ci dà delle dritte. Intanto, altra cosa è la “poesia” del Natale, altra la incarnazione di Dio, talora così impoetica, sconcertante fino alle vertigini. Eppure la carne di Dio fattosi uno di noi ci riconcilia in tutto e per tutto con la nostra umanità, tutta quanta e così com’è. Sicché non si può separare il Natale dalla Pasqua e nella Pasqua la croce dalla risurrezione né la risurrezione dalla croce. Così nel Natale, non si è può dividere l’umanità dalla divinità, perché una umanità a tutto tondo sussiste in Dio fatto uomo. Ben venga la passione per icone dell’oriente con la loro stilizzazione atta a evocare il Cielo, ma ha la sua ragion d’essere nel culto di Dio anche la plasticità della statuaria antica, come la concretezza talora imbarazzante del nostro Rinascimento. Tanto per fare una divagazione estetica che può valere non più di tanto. Ma anche il Concilio di Calcedonia (451) insegna che le due nature, l’umana e la divina in Cristo, vero Dio e vero uomo, sussistono «senza separazione, senza confusione, senza divisione, senza mutamento o alterazione».

Ne deriva il rispetto per la “terra”, per queste cose terrene, naturali, laiche, che il Vangelo non sorpassa per proiettarci nel “cielo”: non si può dichiarare offerta sacra ciò che è dovuto al padre o alla madre, parole del Figlio di Dio (cf. Mc 7,11-12). Ne scaturisce amore per l’umanità, quella concreta in ogni uomo o donna così com’è. Il Natale è Dio fatto uomo, “il figlio del carpentiere” (Mt 13,55), anzi “il carpentiere” (Mc 6,3).

Tratto da “Il Mantello della Giustizia” – dicembre 2015

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Le perplessità di Giovanni Battista. Fragilità e grandezza

di Carlo Nardi

Giovanni Battista, ossia “il battezzatore”, ci accompagna nel tempo liturgico del natale. Nella preparazione dell’avvento ci viene incontro come profeta, ossia come chi parla per conto di Dio davanti agli uomini, anzi come profeta specialissimo. Con lui infatti si conclude il tempo della legge, l’Antico Testamento, e s’inaugura il tempo della grazia: grazia, dono che è lo stesso Signore Gesù Cristo, che Giovanni addita come l’agnello di Dio a prendere su di sé il peccato del mondo per distruggerlo nella sua carne, ossia nella sua umanità offerta al Padre per noi.

Proprio per questo Giovanni “il battezzatore” ci visita di nuovo nel tempo dell’Epifania, in quella “manifestazione” della Trinità santissima al Giordano attorno alla sua seconda Persona, il Cristo, agnello di Dio, salvatore, anzi redentore, “riscattatore”.

Ed essendo Gesù compimento e pienezza, a seguito dell’indicazione di Giovanni “È lui, Gesù, l’agnello di Dio”, due suoi discepoli lo lasciano di punto in bianco per andare dietro – la cosiddetta sequela – a quell’uomo di Nazareth. È quello che Giovanni aveva voluto, dichiarando a chiara voce che Gesù è il redentore. Eppure Giovanni si vede privato della presenza dei suoi due pupilli. È una spoliazione, un deserto interiore, come la solitudine a cui si è votato. Giovanni – lo dice Gesù – è l’amico che gioisce per la gioia dello sposo che non gli appartiene, perché appartiene a lei, la sposa, la chiesa di cui sono ormai parte i due discepoli del solitario profeta che giustamente lo hanno lasciato per Gesù. Difatti Giovanni è l’annunciatore, l’araldo, “il precursore”, “il paraninfo” e perciò deve diminuire, ritirarsi, rattrappirsi, di fronte a Gesù che deve crescere. Il che da parte di Giovanni è un po’ morire.

La figura del Battista è infatti velata di contenuta tristezza, inondata di malinconia acuita da un crescendo di solitudine. Nei Vangeli secondo Matteo (11,2-15) e Luca (7,18-25) c’è un altro tipo di spoliazione: è la prova della fede di lui, profeta addirittura del Messia presente. Non solo. Quella prova ha a che vedere con effetti collaterali attivati dalla sua coerenza di messo di Dio, dal suo zelo per le cose di Dio; per quel “Non ti è lecito” da lui detto, senza peli sulla lingua, al re Erode Antipa: “non ti è lecito” stare insieme a la moglie di tuo fratello. Il che, dopo alcuni tentennamenti, fa scattare da parte del re la prigione per Giovanni: qualcosa che si possa bollare come lesa maestà ci vuol poco a trovarlo o inventarlo.

Giovanni dalla prigione invia dei messi a chiedere a Gesù: “Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare un altro?”. Un “altro” che cosa? Il Messia, il riscattatore, il liberatore, il salvatore con i vari significati che a queste e simili parole si davano. Nei primi del Novecento c’era chi si peritava ad attribuire a Giovanni, tutto d’un pezzo, oscillazioni, vacillamenti, perplessità, dubbi, oscurità, pensieri tormentosi. Ma – mi vien da dire – altra cosa è una solitudine scelta, altro un carcere imposto, e insieme conseguenza della sua fedeltà a Dio e al suo Messia: situazioni sconcertanti, destabilizzanti. Gesù, con la sua risposta a Giovanni tramite quei messaggeri, lo ammonisce a non trovare il lui, il Salvatore, motivi d’inciampo in un cammino di fede perseverante. Un implicito rimprovero? Uno spunto per pensare, ripensare, specialmente alla luce di quel che segue: Gesù dice che Giovanni è il più grande tra i figli d’uomo. Lo dice con un apprezzamento, con una lode, lui che conosce gli angoli bui presenti anche nel Battista. E Gesù, facendo e dicendo, c’insegna che una lode è più efficace di un rimprovero. Quella lode accompagnò Giovanni fino alla morte? Certo fino alla sua decapitazione da parte dello stesso re per la fedeltà alla volontà di Dio. Se questa non è fede!

Tratto da “Il Mantello della Giustizia” – Dicembre 2014