Lettera ai Parrocchiani, n.11 - Luglio/Agosto 2016

07.01.2017 21:23

Quella specie di pane

Carlo Nardi

 

Dall’Esodo (cap. 16) 

 

in «Parrocchia di Santa Maria a Quinto. Lettera ai parrocchiani» 11 (26 maggio 2016), n. 6, p. 1.

 

Immaginiamo di esserci. Nella solitudine inospitale e irresistibile il ventre reclama, urla, impone. Si rimpiange l’avvilente schiavitù, dove però ci si levava il corpo di grinze o, almeno, si credeva che le cose fossero andate così. Perché chiodo schiaccia chiodo, sicché il presente doloroso obnubilava il passato che non doveva essere di meno, … quando s’era in man di faraone.

Di lì la mormorazione, dove ravviso il mugugno, il bubare nella nostalgia di un tempo che fu, che s’immagina trasfigurato dal rimpianto. E quando il pio agiografo sciorinava una sfilza di ortaggi, nutrienti e goduriosi, fecondati dal limoso Nilo, non mi levo l’idea che nell’aggiungere nome a nome non avesse sulle labbra un disincantato sorriso d’ironia.

Disincanto, appunto: mi viene in mente il Làchera con la sua sua bottega ambulante. Egli, anni di Firenze capitale, al passaggio di deputati e senatori alla volta di Palazzo Vecchio, faceva tintinnare i centesimini di rame nella sua saccoccia, finché sbottava a gran voce con un “E s’avea a star nell’oro …!” La fonte della notizia mi raggiunge per tradizione orale di mio nonno Alfredo Coppini, classe 1898, da collocare con Carlo Lorenzini, sì Collodi, che al Làchera accorda una furtiva presenza ne Gli ultimi fiorentini: «Il Lachera non era nemmeno un tipo; era piuttosto la facezia arguta e frizzante, fatta uomo; era il vero brio sarcastico fiorentino, travestito da venditore di perecotte o di torta coll’uva, a seconda della stagione. Il Lachera, morendo, portò via con sé molta parte di quel riso geniale, che fa buon sangue e che usava al tempo dei nostri vecchi, che sapevano ridere tanto bene!»[1].

Ma la situazione è piuttosto da confrontare con quella che Erich Fromm, Scuola di Francoforte anni sessanta, chiamò Fuga dalla libertà[2].

     Comunque il buon Dio – gli eran cascate le braccia? – accondiscende. Una pappina nutriente e dolciastra, la manna, discese pietosa sul popolo digiuno e lagnoso, e non troppo bene intenzionato, ma finalmente curioso: Man hu «Che cos’è?». E Domineddio pensò anche ad un regolamento essenziale – che insegnamento nella forma e nella sostanza! – in due soli articoli. Il primo, in negativo, è il no all’accaparramento: se si sgraffignavano due porzioni, bachi su tutta la manna. Il secondo, in positivo, parla di sabato, la festa settimanale con doppia porzione per il necessario sacrosanto sostentamento. Garantiva il riposo festivo. Mica poco. Almeno se ne parlava. Mica facile, per tutti e per ciascuno. Più facile ai tempi della Rerum novarum (1891) di papa Leone (cap. 33) tra fine otto e primo novecento?

     A questo proposito un proverbio del tempo che fu, purgato d’un che di scaramantico, mi pare accludere le due regole in materia di manna e dintorni: Il lavoro dell’Ascensione / e’ va tutto in perdizione. E non solo per l’Ascensione.  

 



[1] Carlo Lorenzini, Occhi e nasi, Gli ultimi fiorentino: Tipi fiorentini scomparsi, in Id., Opere a cura di Daniela Mareschi, Arnoldo Mondadori, Milano, Milano 22003, p. 343.

[2] Erich Fromm, Fuga dalla libertà. Traduzione italiana di Cesare Mannucci, Edizioni di comunità, Milano 1963, con numerose ristampe. Considerazioni: C. Nardi, Il "re travicello" da ‘Esopo’ a Fedro: fuga dalla libertà?, in «Milleottocentosessantanove. Bollettino a cura della Società per la Biblioteca Circolante di Sesto Fiorentino» 5-6 (1987-1988), pp. 28-30.