Luce in quaresima. Trasfigurazione con san Leone MagnL

26.03.2016 18:31

in «Parrocchia di Santa Maria a Quinto in Sesto Fiorentino. Lettera ai parrocchiani» 11 (2016) n° 2 

Anche il colore violaceo ha il suo splendore, così come il grigiore dei giorni monotoni o frenetici conosce i suoi bagliori. Introduce una luminosità il vangelo della trasfigurazione che si legge nella messa della seconda domenica di quaresima fin dai tempi del papa san Leone I, verso la metà del quinto secolo. Quel fulgore è anticipo della luce futura e perpetua, ma è ancora provvisorio in questa vita, perché nulla ci esime dal dover affrontare il chiaro scuro della fede. La luce del Tabor è pregustazione del pieno splendore, ma non possiamo pretendere di gestirla a nostro piacimento. Per trattenerla nei nostri progetti perderemmo il più, la luce della pasqua, della risurrezione di Cristo e della nostra risurrezione.

                Dice qualcosa del genere la costatazione. La quaresima è preceduta dalla cosiddetta ‘candelora’ nella Presentazione di Gesù al tempio: una processione «con la massima gioia, come per pasqua» è attestata a Gerusalemme da Egeria, pellegrina devota e curiosa in Terrasanta nella seconda metà del quarto secolo. Eppure la natura pasquale della festa istillò nella celebrazione tratti penitenziali. La ricorrenza prese nome di Purificazione della Vergine, espressione biblica, ma con qualche equivoco comunicativo, ed è stata chiamata così fino a qualche decennio fa. Così anche nelle antiche orazioni latine si chiedeva d’essere a nostra volta presentati al Padre con le “menti purificate”, tanto più che quella processione litaniante per le vie di Roma pareva sostituire le sguaiate feste pagane dei lupercali con i loro accattivanti bagliori. Nella ricorrenza attuale della Presentazione, che è una festa di luce, c’è connessione dell’incarnazione del Figlio offerto al Padre con l’estrema conseguenza della sua donazione nella croce, quando Cristo offre al Padre il corpo che il Padre stesso gli ha preparato, come lo schiavo che si lasciava bucare l’orecchio per rimanere volontariamente schiavo.

Insomma, anche lo splendore del Tabor si deve eclissare. La luce della Trasfigurazione non è catturabile, neppure dall’entusiasmo di Pietro, luce che ha il suo perché nella sua provvisorietà come preparazione. Definitiva è solo la risurrezione, la pasqua di Cristo, nostra pasqua.

A questo proposito mi piace tradurre qualcosa da una predica del papa Leone:

Il Signore manifesta a testimoni scelti la sua gloria e inonda di splendore la struttura del suo corpo, struttura che condivide con tutti noi, al punto che il suo aspetto era simile al bagliore del sole e la sua veste era pari al candore della neve. Con quella trasfigurazione si trattava per prima cosa di togliere dal cuore degli apostoli lo scandalo della croce e di ottenere che l’abbassamento nella passione da Lui volontariamente accolta non sconvolgesse la fede di coloro ai quali era stata svelata in anticipo la grandezza di una dignità nascosta. Non solo. La speranza della santa Chiesa trovava il suo fondamento proprio nell’efficacia della provvidenza di Dio perché tutto il corpo di Cristo [noi tutti] si rendesse conto del mutamento abissale che avrebbe ricevuto in dono e perché le membra [che siamo noi] si ripromettessero di condividere quell’onore che era brillato nel loro capo [Gesù]. Su questo onore si era espresso ancora il Signore, quando parlò della maestà della sua venuta: «Allora i giusti brilleranno come il sole nel regno del loro Padre» (Mt 13,43). Nel contempo il beato Paolo apostolo attesta proprio questo, quando dice: «Ritengo che le sofferenze di questo momento non siano paragonabili alla gloria futura che si svelerà in noi (Rm 8,18)», e ancora: «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Difatti quando sarà apparso Cristo, che è la vostra vita, allora anche voi apparirete con Lui nella gloria» (LEONE I, Discorsi 38 [51], 3,1-4: Biblioteca patristica 33, pp. 256-258).

E la sua conclusione:

Si rafforzi perciò la fede di tutti secondo l’annuncio del vangelo in tutta la sua santità e nessuno si vergogni della croce mediante la quale il mondo è stato redento. Nessuno abbia paura di soffrire per la giustizia né sia diffidente circa la retribuzione di quanto Dio ha promesso, perché attraverso la fatica si passa al ristoro e attraverso la morte si passa alla vita, quando Lui avrà assunto ogni tipo di debolezza propria della nostra bassezza; ma in Lui - se persevereremo nel riconoscerlo e nell’amarlo – vinciamo ciò che Egli ha vinto e riceviamo quel che ha promesso. Perché sia nel mettere in pratica i comandamenti sia nel sopportare le avversità deve risuonare incessantemente alle nostre orecchie la voce del Padre: «Questo è il mio Figlio amato nel quale ho trovato il mio compiacimento. Date retta a Lui» (Mt 17,5b), che vive e regna col Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen (Ivi 38 [51], 8,1-3: Biblioteca patristica 33, p. 264).

Carlo Nardi